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24 febbraio 2003. In questa data moriva l’ottavo re di Roma, Alberto Sordi, attore romano tra i più amati di tutti i tempi. Aveva 82 anni. Un paio di mesi prima – il 17 dicembre 2002 – la sua ultima apparizione pubblica al Teatro Ambra Jovinelli, un saluto ufficiale al pubblico che tanto lo ha amato, prima di spegnersi per un tumore ai polmoni nella sua casa di Roma. Dopo la cerimonia funebre, il feretro venne tumulato nella cappella di famiglia nel cimitero monumentale del Verano di Roma, in cui, su una lapide a forma di pergamena, è inciso l’epitaffio: «Sor Marchese, è l’ora» battuta ripresa da uno dei suoi film più celebri, Il marchese del Grillo. Sul Corriere della Sera di mercoledì 26 febbraio 2003, viene ricordato il grande attore italiano con l’articolo di Tullio Kezich “La faccia del cinema che nascose se stesso” nel quale possiamo leggere: «“Presidente, nomini Alberto Sordi senatore a vita” invocava in prima pagina questo giornale il 15 giugno del 1995 mentre l’interessato festeggiava il settantacinquesimo compleanno. Inutile avere oggi rimpianti perché la proposta cadde allora nel vuoto. Alcune delle obiezioni erano già previste: “Il laticlavio concesso a un attore? A un comico? A un macchiettista?”. Però, aggiungeva l’articolo, nell’anno centenario dell’invenzione dei fratelli Lumière bisogna avere il coraggio di guardare il cinema in faccia; e la faccia del cinema nel nostro Paese non può essere quella di Alberto Sordi».
Corriere della Sera di mercoledì 26 febbraio 2003
«Ci piaceva perché ci compiacciamo, e non ci piaceva perché non ci piacciamo. In ogni personaggio di Alberto Sordi, amatissimo gestore del luogo comune e della retorica nazionale, c’è il nostro destino più goffo. Di sicuro c’è Sordi nei nostri ospedali, dove il dottor Tersilli, con una marchetta per colonna sonora, continua a ricoverare i sani a pagamento e a mandare a casa i malati senza soldi. C’è Sordi a Montecitorio, in ogni onorevole spocchioso e sospettabile di corruzione. E c’è Sordi persino nei politici che stanno organizzando, domani in piazza San Giovanni, un altro funerale di propaganda, manifesto programmatico di un’identità»
Francesco Merlo
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